Il «Saul»

Il Saul fu ideato e steso dopo l’Idea e stesura della Merope, e versificato alla fine della versificazione di quella tragedia con cui l’Alfieri aveva ripreso la sua attività tragica malgrado i vani propositi di non superare il numero delle dodici tragedie precedenti. Nelle pagine della Vita dedicate al racconto della composizione di queste due tragedie, il poeta attribuí a tutte e due lo stesso giudizio entusiastico circa la irresistibile forza ispirativa che lo aveva costretto a comporle. Ma in realtà esso vale molto diversamente per la Merope, che nasceva da un’esigenza piú tecnica e letteraria e sulla base di un’ispirazione parziale, di un parziale elemento dell’animo alfieriano, e per il Saul, che nasce dalla piú profonda ripresa del centrale motivo poetico alfieriano, dal pieno della sua intuizione tragica della vita e della sua autobiografia poetica. Altezza, profondità e complessità che poi l’Alfieri riconobbe al Saul nel Parere e in un altro passo della Vita, dove, parlando del Saul, dice che «in esso vi è di tutto di tutto assolutamente» e che il personaggio di Saul era «il [suo] personaggio piú caro»[1], perché il piú vicino anche alla sua natura complessa e irrequieta, tormentata da «ira e malinconia», oscillante fra impeti e sdegni eroici e desiderio di quiete e di affetti consolatori («Bramo in pace far guerra, in guerra pace»[2]), fra speranze e delusioni, fra sogni e volontà di azione e di affermazione della sua personalità e il doloroso pessimismo che scaturisce dalla constatazione dei limiti che chiudono la condizione degli uomini in una realtà ostile, in un ordine delle cose dominato da forze oscure e implacabili.

Il Saul (ideato il 30 marzo 1782, steso dal 2 all’8 aprile, versificato dal 3 al 30 luglio dello stesso anno) nasce dagli strati profondi dell’animo alfieriano, dal fondo piú intimo della sua esperienza della vita, dal centro della sua intuizione della tragica situazione umana e insieme dal ripensamento dei suoi temi e della sua esperienza tragica sollecitato dalla stessa preparazione dell’edizione senese delle tragedie fino allora scritte. E se ciò non esclude naturalmente la ricerca di testi piú o meno particolarmente utilizzati dall’Alfieri nella costruzione della sua tragedia, di suggestioni letterarie, si può ben dire che il testo piú valido ed importante in relazione alla concezione centrale del Saul rimanga la Bibbia.

Perché il rapporto fra uomo e divinità, che nella Bibbia si risolve pure nel riconoscimento del diritto celeste, della giustizia dell’ira di un Dio concepito in forme di assoluta potenza e autorità, di spietata crudeltà contro chi gli si ribella, balenò alla fantasia dell’Alfieri come l’espressione piú suggestiva del rapporto drammatico fra individuo e limite della realtà e del suo ordine ferreo e crudele; cosí come nella figura di Saul il poeta intuí la possibilità di un piú profondo e complesso sviluppo della tragedia del tiranno e della vittima insieme unificati e sottoposti a loro volta ad una suprema incarnazione del tiranno nelle forme di una divinità quale la Bibbia gli offriva, anche se in quel libro potenza implicava giustizia, mentre nella tragedia alfieriana la giustizia le è solo riconosciuta dal mondo dei devoti e dei sacerdoti, non da Saul nei suoi momenti piú veri e nel supremo atteggiamento della morte («Sei paga, / d’inesorabil Dio terribil ira?», At. V, sc. 5, vv. 218-219)[3].

In questo personaggio centrale, che soverchia con la sua statura poetica i personaggi che lo circondano (e che pure hanno una propria esistenza e una propria validità e funzione nella natura complessa della tragedia e nei rapporti con il protagonista), l’Alfieri realizzava una figura poetica (non il “portavoce”, il “prestanome” di una tesi e di un problema intellettualistico) in cui compiutamente si esprime la sua intuizione della situazione tragica dell’uomo eroico e infelice, preso fra il suo complesso mondo di aspirazioni e il limite della realtà, che in questo caso è rivelato nel suo carattere piú assoluto e profondo, eterno, impersonato addirittura nel tremendo potere del Dio biblico. E insieme, proprio dall’incontro propizio con la Bibbia, l’Alfieri ricavava un possente stimolo alla ricerca di una poesia piú immaginosa e varia, ricca di elementi “meravigliosi” e “sublimi” quale egli la desiderava in questa fase della sua maturazione piú piena e della sua crescente rivolta alla civiltà illuministica, al secolo che proprio nel Parere sul Saul egli definiva «niente poetico, e tanto ragionatore», che egli considerava incapace di «forte sentire» e di ardire poetico, privo del senso tragico della vita e a cui, appunto in sede poetica, egli intendeva opporre anche un linguaggio piú vario e immaginoso: donde anche il tentativo, in verità assai infelice, di quei canti di David nell’Atto IV, in strofe polimetriche, pieni di echi biblici e ossianeschi.

Mentre infine il mondo patriarcale biblico aiutava il poeta nella realizzazione di quel mondo minore di personaggi di per sé inclinati ad affetti piú consueti e a un rapporto di fedeltà e di fiducia nella divinità e nel suo ordine, celeste e mondano, che in questa tragedia vivono in funzione di Saul e pure hanno anche una loro autonoma esistenza e arricchiscono tutti indubbiamente la gamma sentimentale e la complessità teatrale di questo capolavoro, anche se con varia sicurezza poetica. Il mondo minore è accomunato dal suo rapporto con Saul che lo turba e lo fa partecipare al ritmo tragico, che nel protagonista ha il suo centro essenziale, e insieme da un atteggiamento di fiducia in Dio, di accettazione della sua legge e della sua giustizia.

Cosí David, il fedele di Dio, il rappresentante piú intero del mondo che accetta la legge di Dio e incrollabilmente crede alla sua giustizia e alla sua protezione, rivela nelle sue caratteristiche di eroe fiducioso e perfetto lo sforzo dell’Alfieri di rappresentare positivamente una posizione cosí lontana dalla sua e da quella di Saul, di dar voce ad una fede assoluta che trova solo a tratti espressioni piú alte e solenni, come avviene nel verso con cui David commenta il turbamento del re abbandonato da Dio («Miseri noi! che siam, se Iddio ci lascia?», At. I, sc. 1, v. 20). Ma, piú generalmente, proprio in questa sua impostazione troppo lontana dalla vera ispirazione del poeta si dimostra piú statico e distaccato da una vera partecipazione al dramma di Saul, troppo chiuso nella sua sicurezza, troppo poco animato da un sincero tormento.

Gionata ha in comune con David la fede in Dio e un giovanile fervore, ma diversamente da lui, nella propria parte meno rilevata ma piú intima e congeniale all’ispirazione alfieriana, quel fervore piú ingenuo si unisce con la sua pura natura di vittima, con la sua devozione gentile e sensibile a David, con il suo amore paziente e filiale per Saul.

Poeticamente compiuta e ancor piú ricca di quegli elementi affettuosi ed elegiaci che l’Alfieri aveva già espresso nella figura di Merope è la figura di Micol, sposa, sorella e figlia, vittima come Gionata di un dramma che la investe e la fa vibrare nella sua natura tanto piú sensibile, nella sua disposizione femminile di compassione, di sollecitudine affettuosa, di tensione delicata e dolente verso le vicende tragiche dei suoi cari.

Meno scavati e poetici sono gli altri due personaggi della tragedia: Achimelech e Abner. Il primo, legato soprattutto ad una fase particolare della tragedia, è figura piú esterna e nel suo fanatico orgoglio sacerdotale sembrano accentuarsi fino all’enfasi le caratteristiche piú rigide di quel mondo sicuro nella fedeltà a Dio che osservammo anche in David. Il secondo è poi piú marginale rispetto al mondo dei personaggi minori, dai quali lo distingue una mentalità interamente mondana e politica di guerriero e di ministro completamente chiuso ad ogni suggestione soprannaturale e religiosa, ed anzi volto ad identificare nei sacerdoti il vero ostacolo alla potenza di Saul. Comunque egli, che porta, in questo senso, un arricchimento alla complessità della tragedia come personaggio intermedio fra il mondo dei devoti a Dio e gli aspetti piú politici di Saul, non ha una vita poetica intensa e si può avvertire qualche stridore, se non fra la scellerata perfidia che gli attribuiscono Gionata, David e Micol e la luce di fedeltà e di affetto verso Saul che lo illumina nell’ultimo incontro con il suo re, certo fra questo suo sviluppo piú poetico e la figura piú grigia che gli riconoscevamo nelle precedenti parti della tragedia.

Come questa tragedia si presenta singolarmente complessa e ricca di motivi e personaggi, cosí essa si articola, rispetto alle precedenti tragedie alfieriane, in una linea particolarmente varia, mossa, con rallentamenti e progressioni piú sommesse e pausate, con impeti e crescendo di estrema potenza, con oscillazioni profonde, con intrecci di temi e di toni che hanno il loro centro animatore nel nucleo potente rappresentato dal protagonista.

Ma se la voce piú profonda e poetica è pur sempre quella di Saul e la grande poesia si apre nella tragedia solo con le prime battute di lui all’inizio del II Atto, sarebbe errato ridurre il valore della tragedia alla figura e alle parlate di Saul, operare un’assurda antologia in un’opera cosí complessa, ma anche cosí organica. Basti considerare che la figura di Saul è preparata e mediata in alcuni suoi aspetti dalle immagini che ne offrono i personaggi del I Atto.

E lo svolgersi dell’Atto (in cui, nelle varie scene, si anticipano temi che poi la tragedia riprenderà con tanto maggior forza nella rappresentazione diretta di Saul, o si prepara l’ingresso dei nuovi personaggi nella tensione e nell’attesa affettuosa verso di loro da parte di quelli che son già sulla scena) è accompagnato da una mirabile preparazione del luogo e soprattutto del tempo entro cui si svilupperà poi l’azione.

Questa attenzione al tempo, all’ora che passa e incalza, era già viva nell’Alfieri delle precedenti tragedie, ma qui è piú assidua e poetica, piú graduale ed efficace. E proprio nel I Atto tale attenzione si rivela piú esplicitamente fra la prima invocazione di David nella notte che sta cedendo al giorno, l’arrivo di Micol che Gionata percepisce dal biancheggiare della sua veste nell’incerta luce dell’alba, la diretta indicazione dell’«alba nascente» nelle parole di Micol e del completo “aggiornare” in quelle di Gionata. Tema del giorno che nasce, della luce che sorge che, mentre sensibilizza in maniera suggestiva lo stato d’animo dei personaggi minori fra inquietudine e speranza con una finale conclusione su note di aperta speranza, e accompagna nel suo lento, sobrio sviluppo quest’Atto piú sommesso, accentua anche la sua aura romita e silenziosa prima dello scatenarsi dell’impeto tragico e prepara, per contrasto e per svolgimento, la nota su cui si inizia il II Atto e la prima parlata di Saul:

Bell’alba è questa. In sanguinoso ammanto

oggi non sorge il sole; un dí felice

prometter parmi. – Oh miei trascorsi tempi!

Deh! dove sete or voi? Mai non si alzava

Saúl nel campo da’ tappeti suoi,

che vincitor la sera ricorcarsi

certo non fosse.[4]

Infatti in questo atteggiamento di attenzione al giorno che sorge, e su di un iniziale movimento di speranza, che consuona con quello che aveva chiuso il I Atto, ci si presenta Saul. Ed egli ci si presenta anzitutto nella coscienza dolorosa della sua situazione; quella coscienza che è in Saul elemento fondamentale e ne umanizza e ne approfondisce il carattere.

Tale consapevolezza è fondamentale in lui e rende la sua azione tanto piú tragica e complessa in quanto ogni suo sforzo, ogni sua illusione nascono in un animo che, mentre agisce con la massima energia, pur sente a tratti, piú in profondo, la difficoltà e addirittura l’inanità della sua azione.

Le prime parole, l’immagine dell’alba e del sole che non sorge «in sanguinoso ammanto», evocano subito per contrasto un’abitudine di vita tetra, dominata da immagini cupe e tenebrose. E la stessa frase che indica la diversità del nuovo giorno nascente («un dí felice / prometter parmi») rivela subito l’amara incertezza di Saul («parmi»), il suo dubbio sulla vera consistenza di una insolita condizione felice. E la stessa immagine di felicità subito risospinge il suo animo doloroso nel ricordo e nel rimpianto di un tempo felice perduto, della giovinezza e della forza, della potenza, della sicurezza della vittoria. E in questo profondo movimento elegiaco il dramma di Saul comincia a chiarirsi nella lirica meditazione del protagonista, sviluppandosi poi nella consapevolezza dell’origine piú vera delle sue sventure: l’ira e l’abbandono di Dio.

Ah! no: deriva ogni sventura mia

da piú terribil fonte... E che? celarmi

l’orror vorresti del mio stato? Ah! s’io

padre non fossi, come il son, pur troppo!

di cari figli,... or la vittoria, e il regno,

e la vita vorrei? Precipitoso

già mi sarei fra gl’inimici ferri

scagliato io, da gran tempo: avrei già tronca

cosí la vita orribile, ch’io vivo.

Quanti anni or son, che sul mio labro il riso

non fu visto spuntare? I figli miei,

ch’amo pur tanto, le piú volte all’ira

muovonmi il cor, se mi accarezzan... Fero,

impazïente, torbido, adirato

sempre; a me stesso incresco ognora, e altrui;

bramo in pace far guerra, in guerra pace:

entro ogni nappo, ascoso tosco io bevo;

scorgo un nemico, in ogni amico; i molli

tappeti assirj, ispidi dumi al fianco

mi sono; angoscia il breve sonno; i sogni

terror. Che piú? chi ’l crederia? spavento

m’è la tromba di guerra; alto spavento

è la tromba a Saúl.[5]

Tutta la tragica situazione di Saul è qui riassunta, e sotto il peso dell’abbandono e dell’ira celeste la grande figura vibra e si esprime in una autorappresentazione possente e lucidissima, perché Saul è dotato anche di un eccezionale potere autocritico. Il profondo istinto alfieriano di autoanalisi e di autoritratto viene trasferito nel personaggio e disposto tutto in funzione drammatica di tormento e di contrazione dinamica della figura che si esamina e si rappresenta nel proprio interiore tumulto, nella tensione disperata verso un’azione risolutrice (la morte in battaglia), nel suo doloroso rapporto con gli altri, nell’ondeggiare fremente del suo animo fra bisogno di affetto e diffidenza, fra la malinconia e l’ira. E questa prevale a poco a poco nel suo discorso e lo svolge in un imperioso passaggio dalla rappresentazione da parte di Saul del suo stato alla sua attuazione, nell’impeto di collera con cui si rivolge al suo interlocutore, anticipando quell’altro essenziale elemento del personaggio che è la furia contro tutto e contro tutti, l’ansia di affermare la sua vacillante potenza con un’azione violenta, la cui energia frenetica è pari al senso doloroso della sua solitudine, della sua inevitabile sconfitta.

E si noti come l’altissimo sforzo tragico-lirico sia atteggiato in forme dinamiche e drammatiche, come la parola che recupera, con eccezionale intensità poetica, elementi di elegia, di patetico autocompianto, di dolcissimo affetto (i «cari figli»), sia sempre apertamente o potenzialmente parola-azione e volga quegli stessi elementi ad una funzione tragica, ne faccia a loro modo altrettanti dolorosi limiti: e lo stesso amore per i figli è sentito come vincolo che impedisce a Saul di attuare il suo desiderio di morte (unica vera soluzione al suo stato, unico modo di liberazione e di affermazione eroica della sua personalità) contro cui urta l’animo impetuoso, indomito del personaggio. Né la parola indugia nei toni elegiaci, malinconici, affettuosi, risolvendoli invece in un potente intreccio a crescendo di intensità, cui contribuisce il ritmo incalzante, “precipitoso” che travolge ogni pausa (pur chiaramente segnata) e movimenta la straordinaria ricchezza di accenti e di cadenze[6] in una struttura vibrata e impetuosa, ma tanto piú capace (rispetto alle possibilità del precedente Alfieri) di superare l’intensità piú rigida delle brevi battute in cui prima egli concentrava la sua forza drammatica.

Quest’altissima confessione tragica, questa rappresentazione che Saul fa di se stesso e della sua situazione, si completa quando Gionata e Micol sopraggiungono con le loro speranze (riconciliare il padre con David e con Dio, ricostituire l’unità del loro mondo familiare-patriarcale) e le loro parole affettuose e fiduciose sollecitano Saul a una nuova conferma della coscienza che egli ha della ineluttabilità della sua sorte, del suo insanabile dolore.

Prima, alle parole di pace di Micol e Gionata («Col re sia pace», «E sia col padre Iddio») egli opporrà, in un tono malinconico e stanco, la sua amara certezza e la volontà di accettare una battaglia che già si profila (in questa direzione piú profonda del suo animo disilluso) come sconfitta (e veramente la sconfitta incombe su tutta la tragedia come una delle sue note piú costanti e con essa la catastrofe batte insistente come un leitmotiv implacabile e ossessivo):

... Meco è sempre il dolore. – Io men sorgea

oggi, pria dell’usato, in lieta speme...

Ma, già sparí, qual del deserto nebbia,

ogni mia speme. – Omai che giova, o figlio,

protrar la pugna? Il paventar la rotta,

peggio è che averla; ed abbiasi una volta.

Oggi si pugni, io ’l voglio.[7]

E poiché i figli sopraggiunti insistono nel presentargli immagini di vittoria e di pace familiare dopo la vittoria, Saul reagirà piú dolcemente a Micol, piú aspramente all’ingenuo Gionata, che parla di letizia e di uno spirito celeste che riporterà la certezza di vittoria anche nel cuore del padre:

Or, forse

me tu vorresti di tua stolta gioja

a parte? me? – Che vincere? che spirto?...

Piangete tutti. Oggi, la quercia antica,

dove spandea già rami alteri all’aura,

innalzerà sue squallide radici.

Tutto è pianto, e tempesta, e sangue, e morte:

i vestimenti squarcinsi; le chiome

di cener vil si aspergano. Sí, questo

giorno, è finale; a noi l’estremo, è questo.[8]

Dopo lo sdegno superbo dell’uomo maturo alla morte, certo della sua triste certezza («me?»), superiore alle illusioni giovanili (voce profonda del pessimismo alfieriano), si alza il supremo canto funebre di Saul che fissa a se stesso il termine assoluto della sua vicenda, fra l’immagine potente e severa della «quercia antica» che innalza «sue squallide radici», abbattuta da una forza superiore, da una «terribil» mano che altrove Saul precisa esplicitamente, e la ribadita lapidaria affermazione del carattere decisivo della giornata, aperta fra speranze effimere e piú sicura coscienza pessimistica. Altro canto funebre di fronte al quale le repliche dei personaggi minori scadono quasi in pettegolezzo, anche se Micol trova una immagine sensibile e penetrante di Saul nel suo aspetto malinconico, nella consuetudine di una vita infelice, in una fantasticheria di incubi e di immagini funeree:

Nell’ore tue fantastiche di noja,

ne’ tuoi funesti pensieri di morte.[9]

Su questa immagine, che arricchisce la figura di Saul in un atteggiamento intimo e meditabondo, in una disposizione meno agitata e fremente (la malinconia e la noia oltre l’angoscia e la furia con cui egli tenta di spezzare i vincoli della sua situazione), si esaurisce la forza poetica piú profonda di questa parte del II Atto in cui abbiamo conosciuto l’animo complesso di Saul, prima di vederne la conseguenza attiva, il movimento della sua figura, la lotta con cui egli cerca di uscire dal cerchio che lo limita e di salvare o interamente o in parte i valori della sua vita (regno, figli, dignità di re e di eroe), ora scagliandosi contro gli avversari piú diretti e raggiungibili (David, sacerdoti), ora accettando persino momentaneamente un compromesso, ora sentendo piú acutamente che l’unico mezzo di liberazione è la morte (e sperandola almeno eroica e gloriosa in battaglia) e spesso anche avvertendo l’inanità di ogni suo sforzo e il carattere empio dello stesso regno, della potenza che vuole mantenere ad ogni costo.

Nell’ultima parte del II Atto Saul è rappresentato in un piú complesso ondeggiamento fra orgoglio personale, volontà tirannica e affetti familiari, desiderio di pace, fra impeti e abbandoni stimolati dall’improvvisa apparizione di David e dalle reazioni suscitate in Saul dagli opposti sentimenti che prova per lui: ingorgo fra gelosia e ammirazione, fra ricordo di David fedele a lui e del David rivale e protetto da Dio.

E proprio dal punto di vista della linea della tragedia questa parte, non priva di qualche effetto di teatralità piú meccanica, appare necessaria perché rappresenta un primo ripiegamento di Saul, un tentativo da parte sua di salvare sé e la sua famiglia nella conciliazione e nel compromesso con David, e insieme rappresenta un momento di pausa, di distensione, che richiama il finale piú apertamente fiducioso del I Atto e che prepara il brusco, impetuoso scatto drammatico del III Atto.

Ed infatti il III Atto ci riporta (dopo questa effimera calma che si prolunga nelle prime due scene, nel colloquio di Abner e di David che si consultano sul piano della prossima battaglia) ad un Saul adirato e sconvolto, già mediato, nella scena 3, attraverso le immagini che ne offre Micol nel suo appassionato dialogo con David.

Nel nuovo incontro con i figli e con David (scena 4) Saul non ascolta neppure piú i loro vani conforti, assorto com’è nel suo lugubre fantasticare, immerso nella sua sensibilità eccitata:

Chi sete voi?... Chi d’aura aperta e pura

qui favellò?... Questa? è caligin densa;

tenebre sono; ombra di morte... Oh! mira;

piú mi t’accosta; il vedi? il sol dintorno

cinto ha di sangue ghirlanda funesta...

Odi tu canto di sinistri augelli?

Lugúbre un pianto sull’acre si spande,

che me percuote, e a lagrimar mi sforza...

Ma che? Voi pur, voi pur piangete?...[10]

Saul è ora completamente chiuso nel suo dramma, nella sua angoscia tanto piú forte dopo l’illusoria pacificazione che egli sente impossibile, assurda, e lo stesso paesaggio lugubre, ossessivo è ormai la proiezione stessa del suo profondo turbamento, dei suoi «funesti pensieri di morte». E dopo uno scoppio della sua ira e del suo bisogno di assoluto incontrastato potere che si rivolge anche contro i suoi figli, in un nuovo monologo Saul tornerà ad una nuova alta rappresentazione del suo stato infelice, del suo affetto tradito (uno dei “complessi” di Saul è il senso dell’abbandono, della persecuzione anche da parte di coloro che egli piú ama) e una voce potente e stanca, tragicamente elegiaca, canta un nuovo compianto funebre, una nuova invocazione alla morte, sola liberatrice:

La pace

mi è tolta; il sole, il regno, i figli, l’alma,

tutto mi è tolto!... Ahi Saul infelice!

Chi te consola? al brancolar tuo cieco,

chi è scorta, o appoggio?... I figli tuoi, son muti;

duri son, crudi... Del vecchio cadente

sol si brama la morte: altro nel core

non sta dei figli, che il fatal diadema,

che il canuto tuo capo intorno cinge.

Su strappatelo, su: spiccate a un tempo

da questo omai putrido tronco il capo

tremolante del padre... Ahi fero stato!

Meglio è la morte. Io voglio morte...[11]

A questo punto si inseriscono i ricordati canti polimetrici con cui David, approfittando della crisi di disperazione, di intenerimento, di autocompassione di Saul, tenta di ricondurre il re alla conciliazione con cui si era chiuso il II Atto, stimolando in lui, col canto e con immagini propizie, sentimenti di pace, di accordo, di pietà familiare e religiosa, restaurando insieme la sua fiducia in una vittoria ottenuta, come nel passato, nella solidarietà con David e nel rispetto della volontà divina.

L’Atto IV si apre con un breve dialogo fra Micol e Gionata che si confidano le loro ansie, ma esso è subito interrotto dall’apparire di Saul che in questo Atto domina completamente la scena e che, scartata ormai ogni concessione a soluzioni pacifiche (e quasi intimamente vergognoso di averle momentaneamente accettate), è ormai decisamente avviato sulla strada dell’affermazione violenta del suo potere regale, proteso nel tentativo di rompere con la violenza, con l’azione, i limiti che lo chiudono e lo tormentano.

Ed anche se in questo dialogo Saul si mostra ben capace di riflessione e di analisi della situazione, questa analisi è svolta nella precisa conseguenza della necessità dell’azione e dello sterminio dei nemici. In questa parte della tragedia Saul è soprattutto il re assoluto, il tiranno che non ammette ostacoli alla sua potenza e che è anche ben consapevole del carattere empio del trono, della logica spietata del potere che non permette esitazioni e debolezze da parte di chi regna:

O ria di regno insazïabil sete,

che non fai tu? Per aver regno, uccide

il fratello il fratel; la madre i figli;

la consorte il marito; il figlio il padre...

Seggio è di sangue, e d’empietade, il trono.[12]

Cosí nella scena 5 la sua decisione risoluta e la sua furia di sterminio di tutto ciò che ostacola il recupero della sua piena potenza di individuo e di re si risolvono nel colloquio tempestoso e feroce con Achimelech, il capo dei sacerdoti, nell’ordine di ucciderlo e di distruggere Nob, la città dei sacerdoti, di sterminare quella casta ostile e perfida.

Saul è ora tutto concentrato nel senso orgoglioso della sua dignità e potenza regale, e nel colloquio con il sacerdote, enfatico e sicuro nella sua missione di interprete della volontà divina, si rivelano le possibilità di scatto impetuoso, le caratteristiche di ferocia e di crudele ironia che erano implicite nella natura complessa del personaggio, nelle sue componenti di tiranno e di individualità prepotente e intollerante di ogni diminuzione del proprio valore.

Ed ecco che, dopo aver rifiutato lo stesso aiuto di Gionata, il quale, atterrito dall’uccisione di Achimelech, tenta invano di placare la collera del padre e gli riafferma comunque la sua assoluta fedeltà, Saul è ricondotto dalla nuova battuta disperata di Gionata («Combatterotti appresso. / Deh! morto io possa sugli occhi caderti, / pria di veder ciò che sovrasta al tuo / sangue infelice!») ad un’immagine meno fiduciosa della prossima battaglia, e pur sempre coerente a questa eroica tensione personale: «E che sovrasta? morte? / Morte in battaglia, ella è di re la morte»[13].

L’eccitazione lo sostiene ancora e nelle ultime brevi, intensissime scene dell’Atto, Saul allontanerà da sé Micol e Gionata (che dirà qui la sua ultima battuta, l’ultimo grido poetico della sua disperata, gentile personalità: «Padre, ch’io pugni / lungi da te?»), imporrà la sua volontà regale e il suo disperato bisogno di solitudine eroica:

Lungi da me voi tutti.

Voi mi tradite a prova, infidi, tutti.

Itene, il voglio: itene al fin; lo impongo.[14]

Ma, nella solitudine che prelude a quella in cui Saul rimarrà alla fine della tragedia nel supremo gesto del suicidio, questa stessa affermazione di superba sicurezza personale si svolgerà improvvisamente nell’amara, delusiva coscienza della sua effettiva infelicità, della sua squallida situazione di abbandono e di miseria:

Sol, con me stesso, io sto. – Di me soltanto,

(misero re!) di me solo io non tremo.[15]

Scomparse ormai le possibilità di pausa, di compromesso, di conciliazione, l’Atto V si apre nei termini assoluti della catastrofe inevitabile. Saul si è ormai coperto di sangue e di delitti, si è chiuso ogni via di uscita che non sia la prova della battaglia e la liberazione nella morte coronata, ancora nel suo desiderio, se non dalla vittoria, dall’esaltazione della lotta, dello scontro con i nemici.

L’Alfieri volle ancora graduare l’ultimo momento della sua tragedia, preparare l’ultima gigantesca apparizione del suo eroe, l’ultimo suo tormento, le ultime vibrazioni piú profonde della sua lotta e della sua catastrofe attraverso la nuova ripresa della rappresentazione del mondo minore nei suoi elementi piú patetici e affettuosi.

La voce pura di Micol, che invita David a uscire dal suo rifugio e a prepararsi alla fuga necessaria, porta il suo tono limpido soave e mesto ed evoca la luce e le linee della scena notturna cosí coerentemente malinconica, in un’atmosfera di silenzio, di quiete, prima della tempesta che squasserà la tragedia senza piú pause sino alla fine.

E, mentre Micol è protesa nel doloroso commiato da David, il ritmo della tragedia si fa improvvisamente piú forte, e nelle sue stesse parole il “romoreggiare” lontano del campo che si prepara per la tragedia si cambia nel cupo, pauroso suono della battaglia che i Filistei hanno iniziato sorprendendo gli Ebrei, e in mezzo alle impressioni atterrite di Micol compare Saul sconvolto, oppresso dall’incubo del sangue versato.

Saul delira, il tormento del suo dramma si è complicato con il turbamento prodotto nel suo animo e nel suo subconscio dalla strage compiuta, e nel delirio persegue un supremo, istintivo tentativo di scampo dal cerchio tremendo che lo chiude e che si sensibilizza nella visione delle immagini sdegnate di Samuele, di Achimelech, degli altri sacerdoti uccisi e in quella di un gran fiume di sangue che chiude ogni passo tentato dalla sua fantasia eccitata.

Tutto crolla intorno a lui nelle squallide, brevi, incalzanti scene finali in cui la tragedia libera il suo ritmo dagli avvolgimenti, dalle pause degli Atti precedenti, e precipita verso la catastrofe recuperando in forme piú rapide e risolutamente tragiche, nei brevi, assoluti incontri dei personaggi sopravvissuti, nelle loro battute inquiete e sollecitate dall’azione che li travolge, le note piú intime dell’elegia, della tenerezza affettuosa, della pietà che circonda Saul e da cui Saul si difende per non cedere all’impeto di autocompassione, di intenerimento che sale dalla sua intensa sensibilità e che tanto lo distingue dai semplici tiranni, dai “superuomini” di altre tragedie alfieriane.

Mentre Saul corre alla battaglia gli viene incontro Abner, «con pochi soldati fuggitivi», che gli annuncia in parole pietose ed essenziali (anche Abner trova qui la sua luce piú poetica, il suo linguaggio piú profondo) la sconfitta, e la morte dei figli: notizie che, nella forma esitante e fratta con cui gli vengono comunicate, fan vibrare in Saul gli ultimi sussulti del suo sdegno e della sua diffidenza. «Sconfitti? E tu fellon, tu vivi?», dirà Saul ad Abner, che ha voluto sopravvivere solo per salvare il suo re, mentre questi sdegna per sé una simile offerta di fuga e di sopravvivenza: «Ch’io viva, ove il mio popol cade?». E chiederà, fra diffidenza e trepidazione paterna: «Gionata,... e i figli miei,... fuggono anch’essi? / Mi abbandonano?». E dalla reticente risposta di Abner («Oh cielo!... I figli tuoi,... / No, non fuggiro... Ahi miseri!») trarrà la sicura e terribile conseguenza: «T’intendo: / morti or cadono tutti». Egli si è fatto sempre piú lucido e sicuro nella risoluzione della morte («Io da gran tempo in cor già tutto ho fermo: / e giunta è l’ora»), nella squallida coscienza della sua assoluta infelicità, nella eroica volontà regale di affrontare da solo la morte in una estrema affermazione della sua dignità, in un estremo contrasto con la potenza ostile che può infrangere, ma non domare, la sua gigantesca personalità.

Allontanata Micol mentre «si appressan l’armi» (ed essa si tende in una estrema invocazione senza risposta: «Padre!... E per sempre?» – mai come qui l’Alfieri raggiunge tanta potenza nell’incontro dell’azione e del tempo che incalza e brucia ogni indugio e la tensione degli affetti che ripugnano alla separazione definitiva, all’esito tragico della sorte dei mortali), Saul rimane solo nella sua estrema prova di “infelice eroe”[16].

Caccerà dal suo animo l’ultima intensa traccia di tenerezza («Oh figli miei!... – Fui padre. – »), commenterà rapidamente la sua tragica solitudine («Eccoti solo, o re; non un ti resta / dei tanti amici, o servi tuoi»), e si rivolgerà al suo antagonista piú vero:

Oh figli miei!... – Fui padre. –

Eccoti solo, o re; non un ti resta

dei tanti amici, o servi tuoi. – Sei paga,

d’inesorabil Dio terribil ira? –

Ma, tu mi resti, o brando: all’ultim’uopo,

fido ministro, or vieni. – Ecco già gli urli

dell’insolente vincitor: sul ciglio

già lor fiaccole ardenti balenarmi

veggo, e le spade a mille... – Empia Filiste,

me troverai, ma almen da re, qui... morto. –[17]

Non preghiera, non riconoscimento di giustizia, e neppure il completo svolgimento della persuasa, aperta denuncia del Leopardi («La man che flagellando si colora / nel mio sangue innocente»[18]), ma certo l’individuazione potente della forza superiore e inesorabile a cui risale l’origine delle sue sventure, del limite ferreo che invano ha cercato di superare e di fronte al quale egli (mentre testimonia con la sua morte solitaria, abbandonata, fuori dell’ebbrezza della vittoria e persino della battaglia ormai conclusa, la coscienza suprema dei personaggi alfieriani della invincibilità del limite e della inutilità dolorosa dei loro sforzi titanici) afferma ancora la sua dignità eroica, la sua volontà di suprema liberazione, la tragica grandezza degli uomini alfieriani: vinti, ma non piegati; capaci, nell’estrema sconfitta, di un ultimo ergersi impavido di fronte alla morte, non subíta, ma voluta come prova suprema della loro ansia di libertà e di affermazione.


1 Ed. cit., I, p. 301.

2 Saul, At. II, sc. 1, v. 41.

3 Nell’Idea del Saul l’Alfieri scrisse per il finale: «morte di un reprobo» (V. Alfieri, Saul, Testo definitivo e redazioni inedite, ed. critica a cura di C. Jannaco e A. Fabrizi, Asti, Casa d’Alfieri, 1982, p. 138).

4 At. II, sc. 1, vv. 1-7; Saul cit., p.65.

5 Vv. 26-48; ivi, pp. 66-67.

6 Si guardi soprattutto alla eccezionale funzione poetica dell’intreccio di esclamazioni e interruzioni specie all’inizio della parlata, al seguirsi delle cadenze dolenti e impetuose nei primi versi, in cui la mossa dolente e affettuosa che assicura l’amore di Saul per i figli è dolorosamente approfondita dall’improvviso «pur troppo» e sottolineata dalla pausa che segue, prima della scandita interrogativa, che dispone in una successione potente le parole essenziali dei valori di Saul: «or la vittoria, e il regno, / e la vita vorrei?» (il mondo di valori che solidalmente vorrebbe salvare). E l’interrogazione stimola la suprema energia dell’immagine tragicamente salvatrice della morte eroica, in cui tutto l’impeto di Saul si traduce con la sua ansia impaziente («precipitoso»), con la sua irruenza combattiva che poi si svolge nel ritmo scandito, asseverativo che conclude quel primo movimento in una visione squallida, in una clausola assoluta e lapidaria: «cosí la vita orribile, ch’io vivo».

7 Sc. 2, vv. 123-129; Saul cit., pp. 69-70.

8 Vv. 154-163; ivi, p. 71.

9 Vv. 178-179; ivi, p. 72.

10 At. III, sc. 4, vv. 144-152; ivi, p. 88.

11 Vv. 225-237; ivi, pp. 92-93.

12 At. IV, sc. 3, vv. 95-99; ivi; p. 106.

13 Sc. 5, vv. 286-290; ivi, p. 113.

14 Sc. 6, vv. 300-302; ivi, p. 115.

15 Sc. 7; ibid.

16 At. V, sc. 4; ivi, pp. 125-128.

17 Sc. 5; ivi, p. 128.

18 Amore e Morte, vv. 112-113; Tutte le opere cit., I, p. 34.